Los Angeles, 28 gennaio 1985.
Tra le luci dei lampioni e l’asfalto umido un insolito calpestio trapuntato di sorrisi, concitazione e qualche pailette anima il freddo della sera. All’entrata dello stabile verso cui tutti si dirigono è affisso un cartello con scritto “Per favore, lascia il tuo ego fuori di qui”. Dietro quella porta ci sono gli Hollywood’s A&M Studios, in cui si stanno radunando alcuni dei maggiori protagonisti della scena musicale statunitense. Questo il fotogramma d’apertura di una notte che si rivelerà una pietra miliare nella storia della musica: le ugole si scaldano per registrare We are the World, il più grandioso charity project di sempre.
L’album che ne derivò nell’aprile 1985 può essere paragonato a un prisma capace di restituirci frammentate in mille sfaccettature vicende e cambiamenti che hanno contrassegnato gli anni ’80; proprio quest' abbondanza di chiavi interpretative consente di sorvolare sulla funzione ancillare in esso riservata alla musica, con buona pace dei puristi che vorrebbero l’arte come ricerca della bellezza fine a se stessa.
Un primo frammento che We are the World richiama è la motivazione storica della sua esistenza. Se gli italiani ricordano l’inverno 1984-’85 soprattutto per l’incredibile morsa di gelo che avvinse l’Europa, qualche migliaio di chilometri più a sud il continente africano, stritolato da una prolungata siccità, subiva una tremenda carestia che aggravò la situazione umanitaria in zone già dilaniate dai conflitti postcoloniali. Mentre la comunità internazionale, ingessata dalle logiche della Guerra Fredda, ometteva colpevolmente qualsiasi tipo di aiuto, la popolazione sub-sahariana era decimata dalla fame. Il senso di profonda ingiustizia che quest’inerzia generò costituì l’humus da cui germogliò l’idea di alcuni musicisti di coinvolgere la società civile per organizzare aiuti non-statali. Il primo brillante esperimento di questo tipo avvenne in terra britannica con la Band Aid, fondata nel novembre 1984 da Bob Geldof e Midge Ure per incidere Do they know it’s Christmas?, da allora entrata stabilmente nei repertori musicali natalizi.
Sull’altra sponda dell’Atlantico Harry Belafonte, musicista e attivista per i diritti civili, volle
replicare l’iniziativa per raccogliere fondi a favore dell’Etiopia avviando, insieme a Lionel Ritchie, Michael Jackson e Quincy Jones, quel virtuoso passaparola da cui sono nati gli USA for Africa, che con We are the World e 100milioni di dollari raccolti sono entrati nella leggenda.
Recuperiamo così il secondo frammento del puzzle: il rilevante ruolo ispiratore che la musica ha sempre saputo esercitare sull’opinione pubblica. Se, però, nei precedenti decenni erano stati i pezzi di protesta di black music e rock a veicolare le istanze di coscienza civile e attivismo politico, nel corso degli Eightys il paradigma cambia: la tensione a trattare temi sociali non viene meno ma si ingentilisce, lasciandosi alle spalle la grinta oppositiva per indossare un abito generalista, con lo scopo di raggiungere quante più persone possibile. La strategia di fondo è quella di ritagliarsi spazio per cambiare il sistema dall’interno; con i charity projects si tenta anche di più: sfruttare le logiche del sistema economico per mitigare, attraverso i proventi delle copie vendute, i danni che quello stesso sistema causa altrove nel mondo.
Terza tessera del puzzle. Calare nel pop i temi della solidarietà e della fratellanza presuppone scelte ideologiche e stilistiche che, avendo come scopo la massima commercializzazione, incidono direttamente sul prodotto musicale, determinandone l’impoverimento. Non parliamo certo di inesperienza: le 46 celebrità partecipanti, pur provenienti da differenti generi e con carriere diversamente articolate alle spalle, costituivano il fior fiore della musica made in USA; mentre la Columbia Records, che produsse il disco, non necessita di presentazioni. Per perorare la causa benefica, si puntò sulla spettacolarizzazione mediatica dell’evento (si pensi al making of della title
track diffuso in VHS, al grande sostegno radiofonico, all’iconizzazione pop di alcuni artisti) e sulla massima accessibilità del messaggio. Questo punto è esemplificato proprio dalla main song. Jackson e Ritchie, che la composero, aspiravano a una canzone in cui tutti potessero riconoscersi: costruirono quindi il brano su una base ripetitiva e orecchiabile che lasciava spazio al protagonismo dei cori, richiamanti la migliore tradizione gospel, e delle 21 voci soliste, alternate sulla base di timbri ed estensioni per mantenere alta l’attenzione su un testo semplice, ispirato agli inni nazionali, a tratti edulcorato, ma di forte impatto emotivo. Scommessa vinta: con 20milioni di copie vendute il singolo fu un successo strepitoso, scalò immediatamente le classifiche, ricevette 4 Grammy e numerose certificazioni, ed è assurto a inno universale (da ultimo, è stato riproposto durante l’emergenza Covid-19).
Questa logica del marketing della solidarietà, che caratterizza l’intero album, lo rende non a caso uno dei più vituperati di sempre per l’alto tributo pagato in termini di qualità contenutistica e compositiva; essendo costruito coagulando brani donati dagli artisti intorno alla title track, non ha fisionomia narrativa autonoma: fatta eccezione per la potentissima Trapped di Springsteen e per il contributo dei Northern Lights, gli altri pezzi, pur musicalmente interessanti, non formano un tessuto connettivo coerente alla causa. Si tratta tuttavia di un album fondamentale, che ha segnato un inequivocabile punto di passaggio sia nella declinazione dell’attivismo in musica, sia nell’evoluzione dell’industria musicale, dimostrando le dirompenti capacità comunicative di un brano mainstream guidato dal genio e dall’empatia.
Carmen Marotta
Siete veramente bravi ed il VIDES è fiero di voi. Grandi ragazzi! continuate così...non sciupate i vostri "sogni"
Sr. Francesca Barbanera
Direttore Generale Vides