top of page

Le nuvole - Fabrizio de Andrè (1990)

La Musica scandisce il tempo. Come a voler raccogliere una provocazione e a voler contemporaneamente confermare una premonizione di pioggia, il 24 Settembre 1990, conseguentemente alle minacce di Saddam Hussein di colpire i pozzi petroliferi del Kuwait, i mercati mondiali crollano: «c’è Bush che con la benedizione di Gorbaciov il lituano manda le sue navi nel Golfo Persico per difendere il petrolio che poi lui pagherà con i soldi del Monopoli e noi, che abbiamo mandato le nostre bagnarole in suo appoggio, lo pagheremo 40 dollari il bicchiere». Nello stesso momento viene pubblicato le nuvole, il quattordicesimo, nonché penultimo, album di Fabrizio De André. Dopo sei anni dall’ultimo successo, l’intenzione era dare un seguito alle melodie mediterranee di Crêuza de mä e di riflettere, nei testi, sulle dinamiche che intercorrono tra chi detiene il potere e chi ne subisce, spesso troppo passivamente, gli esiti. «Le nuvole non erano fenomeni atmosferici ma personaggi: per Aristofane simboleggiavano i sofisti che, da aristocratico e da conservatore irriducibile, lui disprezzava perché erano contestatori del potere e della logica codificata, per me simboleggiano il contrario e cioè i potenti della finanza, della politica e dell’industria, gli intellettuali di regime, i boss dello Stato-mafia, tutti quei personaggi ingombranti che impediscono al popolo di vedere la luce del sole, cioè la verità!». Il risultato è un concept album estremamente raffinato e compatto, ironico e spietato nella sua componente ottocentesca ma al contempo dolente e affettuoso nella sua parte popolare, così, il long playing vede nel lato A l’affondo contro «la Grande Normalizzazione» e nel lato B il ritorno musicale al radicale peregrinare di Crêuza si incontra con l’uso del dialetto poiché «quando mai il potere si è peritato di capire il linguaggio del popolo?» e si scontra con il mondo popolare del desiderio negato che si arrende assuefatto nel metaforico frinire delle

cicale. In tutto ciò si concretizza la maturità artistica rispetto al primo De André, quello di Bocca di rosa per intenderci: ne Le nuvole le musiche sono totalmente permeate a testi mai così strutturati, come livelli di lettura, nella poetica di De André.


Così come le nuvole, la gelosia è un ostacolo alla vista. «Gelosia» tradotto letteralmente dal napoletano significa «serramento della finestra», il termine deriva dagli influssi arabi sulla lingua francese. La chitarra dimessa di Michele Ascolese accompagna la voce, mentre prima e durante l’ultima strofa una viola aumenta il carico emotivo. «Fenesta co’ ‘sta nova gelosia (Finestra con questa nuova persiana) / tutta lucente / coi chiodini d’oro / tu mi nascondi / la mia bella Nennarella / lasciamela vedere / sinnò me moro (se no muoio)». Testo e musica di autore ignoto, La nova gelosia è un canto tradizionale del XVIII secolo che De André sentì cantare da Roberto Murolo un paio di anni prima dell’uscita del disco rimanendone «affascinato».


Pienamente all’interno del registro musicale di Crêuza con lo ndelele ed il bouzuki di Mauro Pagani, la ghironda, la fisarmonica ed il bastone della pioggia ritornano suoni sabbiosi, dall’odore di spezie e di ulivo. La storia, scritta con Ivano Fossati, di un cuoco-stregone che, amaramente, al mattino si guarda «allo specchio di un tegamino», cogliendo il riflesso della propria condizione umana, e de ‘Â çimma, il piatto che sta preparando con amore e perizia e che di lì a breve i camerieri gli porteranno via lasciandogli «tutto il fumo» del suo mestiere. Si tratta di una pietanza tipica genovese composta da pancia di vitello arrotolata e farcita di verdure, formaggio o frattaglie, ulteriore elemento pagano ed esoterico, così la maledizione «mangiate mangiate non sapete chi vi mangerà» prima del rituale finale, come a ricercare una redenzione del mondo - pentolone. «Cielo sereno terra scura / carne tenera non diventare nera / non tornare dura / e nel nome di Maria / tutti i diavoli da questa pentola / andate via».


Monti di Mola è il nome antico dell’attuale Costa Smeralda, ambientazione scelta da De André per riadattare un’altra storia di speranza e delusione, tratta dal Decamerone Nero di Leo Frobenius che racchiude racconti erotici della cultura contadina popolare africana. «Un’asina dal mantello chiaro» e dagli «occhi color del mare» ed «un giovane bruno e aitante>> dalle cui «narici usciva un vento di Maestrale» s’incontrano ma «nulla si può fare in Gallura che non vengano a sapere» e mentre l’invidia umana si nasconde «tra le frasche» a spiare un amore sincero, i compaesani si preparano per un matrimonio che non avrà mai luogo perché i due risulteranno essere cugini primi. «E lei ragliava incantata ea ea ea ea / lui le rispondeva pronunciando male ae ae ae ae». Proprio questi dittonghi (ea, ae) costituiscono, insieme ai nomi in sardo dell’acqua (ea) e della bava (bae), il motivo su cui è costruito il brano, con i cori dei quartetti della tradizione sarda accompagnati dal flauto in sol ed il flauto in canna e l’immancabile bouzouki di Pagani e l’armonium a dare un sapore molto mediterraneo occidentale al pezzo.


Durante la realizzazione di Crêuza de mä De André scrive insieme ad Ivano Fossati la storia di un uomo che credendo di essere malato non vuole alzarsi dal letto perché «a star fuori c’è il rischio che ti tocchi una passione» e che impreca contro il medico medicone che lo invoglia ad uscire. Nell’introduzione c’è una citazione ad una melodia tradizionale turca suonata con il bouzouki da Pagani che in questo pezzo contribuisce anche con lo ndelele e la lira greca. Mégun Megún è la metafora dell’uomo che non vuole prendere contatto con la realtà e, dunque, di chi assuefatto non si ribella all’ingiustizia sociale perpetuata dal potere.


A ritroso torniamo nel lato A del disco per affrontare chi sono i potenti e soprattutto come esercitano il potere. La storia del «brigadiero» di Poggioreale è ben nota. Il testo, scritto con Massimo Bubola, è cantato in tono dimesso e De André con questo borbottare descrive, prima ancora che con le parole, la relazione di sottomissione che intercorre tra uno Stato che «si costerna, s’indigna, s’impegna» (cit. Spadolini) «poi getta la spugna con gran dignità» e la criminalità organizzata capace a contrario di dare «conforto e lavoro». Don Raffae’ «mi spiega che penso». Il brano è suonato in minore allegro, con pochi accordi ma un ritmo abbastanza sostenuto, ne risulta una melodia molto partenopea, perfettamente calzante al testo, non c’è pausa tra le parole che si susseguono come incastonate nella perdizione senza ritorno.


Un intermezzo, tratto da Le Stagioni di Cˇajkovskij (Giugno opera 37 A), introduce La domenica delle salme, brano in cui l’arrangiamento è ridotto al minimo: chitarra ad accompagnare la voce, violino o kazoo nel ritornello musicale sottolineano il dramma post-apocalittico del «gas esilarante» emesso dalla tv che presidia le strade, permettendo la migliore fruibilità di un testo quanto mai complesso. Vengono prese in analisi una serie di fattacci, di figure e figuranti dello strapotere politico italiano e mondiale. Nella prima strofa è ripreso un fatto di cronaca avvenuto un paio di anni prima quando a Verona dei fascisti diedero fuoco a dei barboni che dormivano; poi i polacchi che per cercare un posto nella nuova Europa «rifacevano il trucco alle troie di regime» mentre il neo costituitosi «quarto Reich ballava la polka» sulle macerie del muro di Berlino guardando verso i mercati dell’Est non più comunista. Poi la storia di Renato Curcio, tra i fondatori delle Brigate Rosse, in quel periodo detenuto per concorso morale in omicidio non premeditato mentre, sottolinea De André, gli autori del periodo stragista italiano erano a piede libero. «Il ministro dei temporali» che auspica una vantaggiosa democrazia «con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni» e che perciò non vuole «spargimenti di sangue» durante l’aperitivo. De André stesso compare, insieme al suo «illustre cugino» cioè il poeta Oswald De Andrade, tentando di difendere l’ultima fortezza della libertà espressiva con un «cannone nel cortile» al contrario di tutti quei sedicenti cantautori impegnati che avevano voci «adatte al vaffanculo» ma hanno preferito cantare «per l’amazzonia e per la pecunia»; mentre il cicalesco popolo italiano risuona nella sua «vibrante protesta». «La domenica delle salme / gli addetti alla nostalgia / accompagnarono fra i flauti / il cadavere di Utopia / la domenica delle salme / fu una domenica come tante / il giorno dopo c’erano i segni / di una pace terrificante».


Pagani racconta che, originariamente, l’album avrebbe dovuto chiamarsi Ottocento perché il testo de Le nuvole di Aristofane parla del disfacimento dell’Impero Romano attraverso la crisi di una famiglia borghese, riflesso, inevitabilmente, delle nevrosi moderne e delle lacerazioni nei rapporti interpersonali e familiari. Rapporti che cadevano sotto i colpi della modernità ieri, quanto più oggi sotto i colpi della post-modernità e dell’anti-ideale. De André sceglie di accompagnare il testo con un’operetta composta da un’orchestra, diretta dal maestro Piero Milesi, e dai cori che richiamano il teatro buffo dell’Ottocento. Proprio verso la metà del XVII secolo in tutta Europa vengono avviati i processi di nazionalizzazione sulla base delle radici culturali; in Germania questo processo è agevolato, se non proprio costituito, attraverso la costruzione totalmente artificiale di melodie stereotipate, che fossero riconducibili ad uno spirito nazionale tedesco; alla caduta del Muro di Berlino la preoccupazione, non solo di De André, era quella che la Germania avrebbe schiacciato il resto dell’Europa sotto al peso della propria efficienza industriale, quindi sotto al suo totalitarismo economico. «Cantami», o diva, del motore che ci trascina «su un tappeto di contanti», della figlia da mantenere vergine, per voler di Dio, fino al «Wunder matrimonie (splendido matrimonio)» d’interesse, del figlio tanto abile a stuprare i poveri tramite i mercati azionari e dalla moglie «dalle larghe maglie / dalle molte voglie / esperta di antiquaglie» e chissà quali quaglie. Una strofa dedicata alla degenerazione della generazione successiva, il figlio «bello bianco e vermiglio» che annega nel naviglio ed il padre che ne trae un torto verso sé stesso prima di quella, già accennata, cantata in tedesco e lo jodel finale a sugellare quanto di conservatore, musicalmente, e di fascista, politicamente, ci sia nella creazione della nuova Germania industriale, attaccata in modo reiterato nel ritornello «Quanti pezzi di ricambio / quante meraviglie / quanti articoli di scambio / quante belle figlie da giocar / e quante belle valvole e pistoni / petali e polmoni / e quante belle biglie a rotolar / e quante belle triglie nel mar».


Le nuvole è il brano d’esordio dell’album in cui l’orchestra, sempre diretta da Milesi, accompagna, con aria sognante di pioggia, due voci di donna, Lalla Pisano e Maria Mereu, madre e figlia, conversatrici da cortile sarde che raccontano la fiaba delle nuvole che «Vengono / vanno / ritornano / e magari si fermano tanti giorni / che non vedi più il sole e le stelle / e ti sembra di non conoscere più / il posto dove stai. Vanno / vengono / per una vera / mille sono finte e si mettono lì / tra noi e il cielo / per lasciarci soltanto una voglia di pioggia».



Fabrizio Piselli


148 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page