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Una testa più dura della durezza della vita

Ci sono storie che sono stanze di vetro in cui si dovrebbe entrare in punta di piedi.

Ci sono storie, come quella di Silvia Romano e della nostra quarantena, che disegnano avvincenti intersezioni, visibili solo se si ha voglia di guardare in controluce.

Il parallelismo non appare troppo audace se si considera l’allarme lanciato dagli esperti sulla rivista Lancet Psychiatry, secondo i quali l’isolamento e il senso di perdita di controllo sulla nostra vita, causati dall’emergenza sanitaria, costituiscono preoccupanti fattori di rischio che potrebbero determinare un incremento esponenziale di disturbi mentali nel post-pandemia, come già avvenne con la SARS nel biennio 2002-2003 dopo quarantene durate mediamente meno di 10 giorni. Gli effetti del lockdown sul nostro equilibrio psicofisico li abbiamo presenti più o meno tutti. Forse, però, neanche chi tra noi è dotato della fantasia più ardita potrebbe immaginare quali ripercussioni possa avere un sequestro durato 18 mesi in un Paese straniero, in balia di terroristi armati e incappucciati che parlano una lingua sconosciuta, ogni giorno senza sapere se si vedrà l’alba successiva e se si rincontreranno mai i propri affetti. Questo è il passato recente di Silvia Romano e un senso di empatia nei suoi confronti, soprattutto dopo due mesi di “arresti domiciliari”, sarebbe apparso un epilogo naturale. Eppure sono bastati un vestito e una conversione a catalizzare la critica morbosa di quella parte d’opinione pubblica che ha l’irriducibile abitudine di dire agli altri come dovrebbero essere e cosa dovrebbero o non dovrebbero fare. L’innesco di un incendio prevedibile, se si considera che il dibattito pubblico sul rapimento Romano era compromesso già pochi giorni dopo il sequestro, quando alcuni opinionisti si erano sentiti in diritto di domandarsi perché mai una «Cappuccetto Rosso» dovrebbe andare a «placare le proprie smanie di altruismo» in Africa; e occorrerebbe chiedersi perché mai nessuno abbia alzato simili obiezioni contro le uguali «smanie» di Pier Luigi

Maccalli o di Paolo Dall’Oglio, tanto per fare due nomi. Ma il rogo è divampato con la frase «Sono stata trattata bene», identica a quella pronunciata il 15 marzo da Luca Tacchetto, al suo ritorno in Italia dopo un sequestro di 15 mesi in Mali, durante il quale anche lui si è convertito all’Islam; eppure in quell’occasione nessuno ha fiatato, com’è giusto che sia.

A soffiare sul fuoco, in quest’Italia esasperata dal Covid-19, c’è poi la multiforme polemica sul riscatto. Ma se l’obiezione per cui quella somma avrebbe potuto essere impiegata per aiutare le famiglie italiane in difficoltà è infondata, dato che i riscatti vengono pagati con fondi propri dell’AISE che non appartengono al bilancio ufficiale (parola di Cossiga!), l’obiezione per cui uno Stato che paga riscatti mette in pericolo i propri cittadini all’estero è mal posta, poiché guarda al dito anziché a ciò che esso indica. Anziché discutere sui riscatti dovremmo forse preoccuparci di evitare al massimo che i rapimenti avvengano, ponendo l’obbligo di sottoscrivere un protocollo di sicurezza anche in capo alle ONG che non ricevono finanziamenti pubblici, ossia la maggior parte, e che a causa delle loro limitate risorse sono strutture più fragili che operano con la forza degli

ideali e della buona volontà. Il risultato è che questa tempesta di astio ha saturato l’aria a tal punto che della persona Silvia non si parla o si parla male, contribuendo enormemente alla vittimizzazione secondaria di una donna che adesso avrebbe solo bisogno di sostegno sociale. Sarebbe invece opportuno diradare l’assordante rumore di sottofondo che sta soffocando una storia di grande umanità e coerenza.

Classe ’95, Silvia si diploma all’istituto tecnico per le attività sociali per poi laurearsi in Mediazione linguistica per la sicurezza e la difesa sociale. Sin da giovanissima le sue idee cristalline le fanno intraprendere un’esperienza formativa lineare che ha come naturale punto d’approdo la cooperazione internazionale: non parliamo dunque di una volontaria improvvisata, ma di una persona che si è preparata tutta la vita per esserlo. È partita due volte per l’Africa per offrire il proprio contributo lì dove l’Occidente ha da sempre fatto danni. Nel 2018 Silvia si trovava in Kenya con l’ONG Africa Milele, per contribuire all’educazione degli orfani di Chakama: qui viene rapita il 20 novembre e ceduta ad Al Shabaab, che la tiene prigioniera in Somalia per un anno e mezzo. Prima di riapparire il 10 maggio a Ciampino con indosso lo jilbāb che ha fatto indignare mezza Italia, Silvia ha vissuto una lunga odissea emotiva in un contesto estremo che tanti di noi, probabilmente, non avrebbero saputo sopportare; ma, nonostante la disperazione, ha ugualmente trovato la forza di appigliarsi alla vita, aggrappandosi a ciò che c’era: un Corano e il dialogo con i

propri aguzzini. Che la sua incrollabile resilienza l’abbia portata a convertirsi, è affare che non ci riguarda. Dovrebbe bastare a riempirci di ammirazione la sua ferma coerenza con se stessa, ribadita con la scelta del nuovo nome: A’isha, che in arabo significa “viva”.

Prima di partire, sul suo profilo Facebook, ormai chiuso a causa delle numerosissime minacce ricevute, Silvia scriveva proprio: «…amo reagire alle avversità. Amo stringere i denti ed essere una testa più dura della durezza della vita. Amo con profonda gratitudine l' aver avuto l' opportunità di vivere».

Bentornata a casa, Aisha.


Carmen Marotta

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