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Lo spazio negativo: vulnerabilità e tabù

Un po’ come per il Fight Club, pare che la prima tacita regola sulla fragilità umana è che non se ne parli. La tenace e generalizzata resistenza ad affrontare l’argomento potrebbe forse da sola bastare per intuirne l’importanza fondamentale, il suo potenziale di strappare la nostra maschera collettiva facendo tremare i polsi di Madama Società.


La cultura occidentale odierna è usualmente definita “individualista”, poiché avrebbe come nucleo la libera autodeterminazione della persona, e questo a parer mio è un brillante modo di usare termini ambiguamente. Sin da bambini, nel disegnare una mappa mentale che ci guidi in questo misterioso e strambo mondo, assorbiamo un gran numero di imperativi impliciti: impariamo così dall’ambiente sociale che è opportuno essere forti, decisi, autonomi, efficaci, razionali e reattivi, socievoli e solari, ma un po’ prevenuti (perché guai a lasciarsi calpestare da chi è più furbo); apprendiamo che dobbiamo avere personalità, purché non si risulti troppo “anormali”, che dobbiamo essere amati e apprezzati da chi ci circonda e che dovremmo essere in grado di conquistarci una nostra felicità, ma cosa sia un’accettabile felicità è già deciso a priori. Fallimenti e debolezze? Vanno bene solo se sai

riderne, e se gli altri accondiscendono a riderne con te. Sei libero di essere ciò che sei, ma sotto il ricatto, velato ma chiaramente percepibile, che al mancato conformismo corrisponde l’esclusione. E allora mi pare quantomeno curiosa la pretesa di definire questa un’“autodeterminazione libera”.


Il risultato di questa splendida alchimia è un modello antropologico dei vincenti, della prestazione, di chi ha tutto sotto controllo o di chi, avendolo perso per qualche accidente, lo recupera subito riaffermando il proprio spirito da combattente dinanzi alle avversità. Residua ben poco spazio per la vulnerabilità, il dubbio, l’insoddisfazione, la paura, il dolore, che perdono progressivamente cittadinanza nel nostro orizzonte di vita tutto programmato per imitare la Macchina, dimentichi che anch’essa ha bisogno di manutenzione e ogni tanto si rompe. Ma, allora, chi è l’individuo che viene posto al centro? Non è forse un soggetto dimezzato, come il Visconte Medardo di calviniana memoria?


Parliamoci chiaro, in parte questa rimozione collettiva ci serve: riconoscere la dirompenza della nostra fragilità genera domande cui è impossibile dare risposte definitive. Sebbene persino la scienza abbia ridiscusso i propri fondamentali, capitolando davanti all’indeterminazione, alla relatività, alla non-linearità della realtà, pare che nella vita quotidiana l’essere umano non riesca proprio a fare i conti con l’incertezza: abbiamo bisogno di schemi e schermi che ci proteggano dalla nostra precarietà, dalla mancanza di senso, dall’insostenibile leggerezza dell’essere come dalla banalità del male, dalla consapevolezza che da soli saremmo perduti. E dunque ben venga inventarsi un rassicurante copione, a patto che questo non si trasformi in una gabbia.


La problematica, forse, è tutta qui: abbiamo confuso questo canovaccio con la normalità. Ogni persona, pensiero, comportamento o sensazione lontana dal modello viene classificata come diversa, pericolosa e finisce dritta dritta in quel personalissimo scatolone mentale delle esperienze etichettate come “da evitare assolutamente”. Spesso, quando ci si relaziona con persone che per proprie caratteristiche non possono fare a meno di mostrare debolezza in determinate situazioni, le si tratta con paternalismo e pietà, conservando sempre uno sguardo obliquo e distaccato, per impedire a quella vulnerabilità di toccarci troppo nel profondo; talora, quando si crede che l’altro sia responsabile della propria condizione, si sfiora il risentimento e la cattiveria. E il peggio, forse, lo diamo con noi stessi: facciamo di tutto per nascondere i nostri punti deboli e, quando nel privato sperimentiamo una qualsiasi forma di cedimento, l’idea di non corrispondere alle aspettative sociali ci rende preda di senso di colpa, vergogna e frustrazione, come se avessimo ingurgitato in un sol

boccone una distorsione del mito dell’Oltreuomo e ci stessimo strozzando tutti. Fatichiamo a perdonarci di essere imperfetti e colmi di sentimenti contraddittori, crediamo di essere gli unici ad avere baratri spalancati dietro la foresta dell’apparenza, sempre più inconsapevoli che il nostro valore umano risiede proprio nell’attitudine a farci plasmare dalla vita, e che respingendola stiamo sputando sulla nostra dignità.


Occorrerebbe dunque intendersi sull’abusato concetto di normalità. In statistica essa rappresenta il termine che ha la massima frequenza nella distribuzione: in parole elementari, è la caratteristica che ricorre più spesso in un insieme. Non sarà l’archetipizzazione di un inesistente soggetto incrollabile a modificare l’evidenza che, nell’insieme “umanità”, la norma non è l’invincibilità, ma la vulnerabilità; tanto più che quest’inganno non ci protegge da essa, al contrario ci sottopone al confronto con un modello irraggiungibile generativo di sensi di inadeguatezza e nevrosi che ci rendono ancor più frangibili. Invece di nasconderla sotto il tappeto delle finzioni, sarebbe probabilmente più salutare iniziare una volta per tutte un serio discorso pubblico che accolga la fragilità non come contingenza, ma come nostra condizione ontologica, da accettare e rispettare. D’altronde, il disorientamento da essa

causato è indizio di cambiamento: non è nella dimensione dell’imprevisto e della mancata difesa che troviamo nuove direzioni, cresciamo, impariamo ad ascoltarci, ci innamoriamo?


La nostra dignità, forse, si annida proprio nell’accogliere questo spazio negativo: è nelle fessure da cui filtra l’ignoto che si giocano le partite più importanti della nostra vita. Come cantava Leonard Cohen in “Anthem”: «C’è una crepa in ogni cosa: è da lì che entra la luce».


Carmen Marotta

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