SPOILER: nonostante l’incipit audace, non aspettatevi alte considerazioni cinematografiche né profonde riflessioni filosofiche o linguistiche. Qui sforniamo solo ibridi miscugli.
“Forse un oggetto è un legame che ci permette di passare da un soggetto all’altro, di vivere in società, di stare insieme. Ma poiché i rapporti sociali sono sempre ambigui e il pensiero così come unisce, separa, e le parole uniscono per quello che esprimono e separano per quello che omettono, c’è un grande abisso che separa la mia certezza soggettiva dalla verità oggettiva degli altri. […] Si può dire meglio. Dire che i limiti della lingua sono quelli del mondo, che i limiti della mia lingua sono quelli del mio mondo, e che parlando limito il mondo, lo finisco.”
Jean-Luc Godard, “Due o tre cose che so di lei” 1967
Se penso alle due o tre cose che so di Godard, mi convinco che soffriamo di una malattia simile: il citazionismo. Sorseggio il caffè e, come per sortilegio, dai gorghi della sua schiuma riaffiorano le parole di questo bellissimo e criptico monologo, snocciolato fuoricampo nel francese sibilante del regista, che è sintesi perfetta di una pellicola sospesa tra soggettività, immagini e parole. Esso, così come la frase “Il linguaggio è la casa nella quale abita l’uomo”, pronunciata poche scene prima, sono rimasti impressi nella mia memoria, in parte perché vi percepivo l’eco al contempo indefinita e familiare di quei simpaticoni di Heidegger e Wittgenstein, in parte perché è bello lasciarsi cullare da quell’illusione immaginifica di svelamento del senso del mondo. Per inaugurare un itinerario di voli pindarici su un tema complesso come quello del linguaggio non potrebbe esserci punto di partenza migliore di questo ricamo di parole e pensiero.
Probabilmente siamo abituati a considerare il linguaggio prevalentemente come un medium neutro tra noi e l’Altro, come strumento di comunicazione che impariamo a maneggiare da bambini. A ben rifletterci, però, non si dice nulla di nuovo affermando che il linguaggio abbia anche una potente energia creativa. In poesia e narrativa, ad esempio, le suggestioni delle parole sono capaci di generare mondi paralleli, ma lo stesso accade anche al di fuori dell’ambito artistico: lo sa bene, suo malgrado, chiunque abbia visto un manipolatore in azione.
Ma che rapporto c’è tra realtà e linguaggio? Quest’attitudine è anche il sistema operativo che permette l’interazione tra noi e il mondo: la capacità di dare nome alle cose, di esprimere concetti astratti e sensazioni ci permette di orientarci delimitando la complessità del reale, elaborandola nel pensiero per creare un sistema simbolico di riferimento, una struttura virtuale che si sovrappone alla realtà e le dà senso. Poiché il suo aspetto definitorio e quello interlocutorio convivono, questo processo di conoscenza è in parte condiviso dagli appartenenti ad una stessa cultura, sicché possiamo dire che esso costituisce un formante del nostro scenario di vita relazionale. Esagero a dire che è come se stessimo giocando tutti allo stesso videogioco? Forse un po’ sì. Eppure, un’ipotesi intrigante come quella della relatività linguistica di Sapir e Whorf me lo suggerisce: essa ritiene che lo sviluppo cognitivo degli esseri umani sia influenzato dalle parole e strutture linguistiche che hanno a disposizione nella propria cultura; è un po’ come se ogni civiltà abbia una propria visione del mondo che si riflette nella lingua, e che attraverso la comunicazione si rafforza e si fa realtà. Un sistema di reciproche influenze affascinante e verosimile, se si evitano gli eccessi del
determinismo.
Doveva aver pensato qualcosa di simile George Orwell nel concepire le regole della Neolingua in quel capolavoro che è “1984”: l’azione del Partito, volta a cancellare ogni termine inerente a concetti astratti e metafore, non aveva il solo fine di impedire l’espressione del dissenso, voleva anche cancellare ogni possibilità di concepirlo. Un po’ agghiacciante, ma tanto si tratta solo di un romanzo, no?
In realtà la funzione del linguaggio come ancoraggio del soggetto a un sistema di riferimento comune pare da tempo in crisi. Progresso tecnologico e sistemi socioeconomici si evolvono ad un ritmo tanto vertiginoso quanto incomprensibile ai più, impedendo una pronta rinegoziazione della sovrastruttura comunicativa. Così, se nei rapporti interpersonali si scivola in una dimensione di incomunicabilità e alienazione (temi cari, tra i tanti che se ne sono occupati in Italia, a Pirandello e, in ambito cinematografico, ad Antonioni), la società subisce una manomissione del discorso pubblico e distorsioni informative incentivate dalla fluidità o dalla mancanza di un con-testo condiviso. A fronte dell’accresciuta complessità del mondo in cui viviamo, il piano simbolico del linguaggio pare svuotarsi di giorno in giorno. È interessante notare, in proposito, che Giovanni Sartori nel suo libro “Homo videns” già sosteneva che la costante sovraesposizione dell’individuo a immagini e video, legata alla diffusione della televisione, stesse cambiando il modo in cui l’uomo interpreta e comprende la realtà, determinando un deterioramento della capacità di linguaggio e astrazione. Era
il 1999. Possiamo solo immaginare cosa avrebbe pensato di Instagram.
Ma non ho intenzione di chiudere queste riflessioni con previsioni apocalittiche. Forse, cedendo ancora al citazionismo, non c’è raccomandazione migliore di quella pronunciata da Stephen Hawking: “Le più grandi conquiste dell’umanità sono venute parlando. […] Tutto ciò che dobbiamo fare è assicurarci di continuare a parlare”. Ricordando che quel che diciamo plasma la realtà.
Carmen Marotta
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