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Di opinionisti, carceri e diritti

Nel Paese degli opinionisti, in cui sembra necessario dire la propria anche senza nessuna competenza, trova fissa dimora la frase “in carcere si mangia, si beve e si dorme… che vogliono di più?!”. Se, poi, consideriamo la classe politica come espressiva della popolazione (o almeno di una parte di questa) e dei suoi atteggiamenti, allora non ci stupiremo del fatto che Matteo Salvini riesce ad appellare il Garante Nazionale dei diritti dei detenuti come “il garante dei delinquenti”.

Prescindendo da queste esternazioni “politiche”, possiamo ben dire che le semplificazioni, per loro natura, non colgono mai davvero la realtà: lo stato delle carceri italiane e la funzione pensata dai nostri padri costituenti per la pena sono sconosciute ai più, essendo l’argomento al di fuori dei dibattiti.


Se si vuole parlare di carcere, sicuramente la stella polare sarà il comma 3° dell’articolo 27 della nostra Costituzione, che sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per il singolo detenuto, allora, dovrà essere plasmato un trattamento individualizzato, che si concretizzi in attività, lavoro, formazione, contatti con l’esterno e percorsi psicologici, e che indirizzi il soggetto alla futura risocializzazione. Il tempo della pena, giustamente da scontare in base al reato commesso, non deve, cioè, essere dedicato all’inedia, ma alla costruzione di un nuovo sé, alla coltivazione di una speranza per il futuro e di un nuovo modo di vivere in società. È importante considerare, infatti, che la rieducazione e la futura risocializzazione giovano al carcerato e alla sua famiglia, spesso stigmatizzata, isolata e destinata a difficoltà economiche, ma anche alla società stessa, che ci guadagna sotto molteplici punti di vista, soprattutto in termini di recidiva.

Non è un mistero che la percentuale di commissione di un nuovo crimine all’uscita dalla prigione si abbassa notevolmente quando si tratta di soggetti che hanno avuto accesso a programmi rieducativi o comunque a condizioni carcerarie rispettose della dignità rispetto a chi non ne ha beneficiato: si passa da un’incidenza della recidiva del 70% al 19% (dati aggiornati al 2018). La situazione, però, in Italia non è delle più rosee: troviamo sicuramente progetti e collaborazioni interessanti, ad esempio il Nuovo Complesso di Rebibbia ha un accordo sia con TIM che con Autostrade per l’Italia, e alcuni detenuti lavorano direttamente dal carcere come impiegati nel call center. Il report di Antigone sulla situazione lavorativa in carcere a Dicembre 2019, però, ci mostra come meno del 30% della popolazione carceraria totale acceda a programmi lavorativi: troppo pochi.


Pur essendo il discorso relativo alla rieducazione importantissimo, in Italia le problematiche riguardano livelli di tutela ancora più elementari. Il nostro sistema carcerario ha un cancro: il sovraffollamento.

Nel 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ci condannava con la ormai celebre sentenza Torreggiani per violazione dell’articolo 3 CEDU, che vieta i trattamenti inumani e degradanti.

Torreggiani era detenuto nel carcere di Busto Arsizio e viveva in una cella di 9mq (ridotti ulteriormente dalla presenza dei mobili) con altri 2 detenuti: dormiva al terzo piano di un letto a castello distante dal soffitto della cella solo 50 cm, ovviamente troppo pochi anche solo per girarsi su un fianco o piegare le gambe. E pensate che in giro c’è anche di peggio.

La “sentenza pilota” emessa imponeva all’Italia non solo la riparazione della situazione particolare di Torreggiani e degli altri 7 ricorrenti, ma anche la risoluzione di una situazione definita come sistemica e strutturale delle carceri italiane, imponendo il rispetto di almeno 3mq per persona in ogni cella. Ad oggi, grazie ad alcuni interventi mirati, il sovraffollamento è sceso. A fronte di una capienza di quasi 51mila posti in tutta Italia, i detenuti sono 60mila, quindi il tasso generale di sovraffollamento è pari al 120%, anche se, essendo le situazioni eterogenee, in alcune carceri, come quelli di Taranto o di Como, si raggiunge un tasso pari al 195%.

Quello che va sottolineato è che gli interventi finalizzati alla diminuzione del sovraffollamento sono stati dettati dalla contingenza e dalla preoccupazione di non incorrere in ulteriori sanzioni, mentre, probabilmente, la soluzione stava in una riforma organica di tutto il sistema, comprendente anche quello del diritto penale vero e proprio.

La tendenza generale è quella di strumentalizzare il diritto penale come soluzione per ogni tipo di allarme sociale che viene creato, molto spesso dai media stessi; scrive Giglioli: “l’allarme per il serial killer, il satiro, il pedofilo, lo zingaro, l’albanese, il rumeno, l’idraulico polacco, il pirata della strada, l’islamico, il clandestino, la prostituta, il tossico, lo sbirro corrotto […] e il pitbull mordace (quest’ultimo, per inciso, nell’estate del 2004, dopo di allora hanno smesso di mordere)”.

Il meccanismo è sempre lo stesso: un fatto di cronaca porta ad un’attenzione quasi morbosa dei media, i social fanno da cassa di risonanza, il popolo si indigna, si crea allarme sociale intorno ad un certo tipo di reato e quindi poi si parla solo di vicende simili: il legislatore, per sopire la situazione, rimette mano alle pene (inasprendole) oppure crea ad hoc nuove fattispecie penali, di cui molto spesso non si sentiva il bisogno. È utile ricordare che il diritto penale dovrebbe costituire l’extrema ratio, cioè dovrebbe essere l’ultimo strumento da utilizzare rispetto a comportamenti devianti che si manifestano nella realtà fattuale.


Senza voler tendere all’idea (forse) utopica di un sistema non carcero-centrico, possiamo sicuramente sperare di avvicinarci ad una riduzione definitiva del sovraffollamento, che possa generare una organizzazione maggiormente inclusiva del piano di trattamento per i detenuti e una maggiore applicazione delle forme alternative di detenzione quando possibile, ma soprattutto a un rinnovato interesse da parte della società, e in particolar modo della politica per queste tematiche, anche se probabilmente non pagano in termini di voti.

Voltaire diceva “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”.

Beh, noi, a quanto pare, siamo ancora lontani dall’età della ragione.


Viola Pugliese

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